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La nuova intervista è ad Andrea Colamedici: filosofo, imprenditore, editore presso Edizioni Tlon.

Andrea Colamedici

Andrea, partiamo dal punto di contatto tra il Movimento Etico Digitale e l’iniziativa Odiare Ti Costa. Ci racconti com’è nato questo progetto? Qual è la sua stella polare e quindi cosa lo caratterizza nell’essenza?

Odiare Ti Costa è un’iniziativa dell’associazione Pensare Sociale, nata per sostenere e aiutare le vittime di odio sul web. La scintilla è scattata dall’incontro tra Maura Gancitano e Cathy La Torre, partendo dal presupposto che in Italia c’è un enorme vuoto culturale, rappresentato dall’incapacità di comprendere che siamo “cittadini del web” e che ci sono delle regole sociali da seguire. Nel giro di pochissimo tempo dalla sua nascita, Odiare ti cosa ha avuto tantissime adesioni, anche da personaggi noti. 

Qual è l’intento di questo progetto, sul lungo periodo? 

Quello di diffondere un senso di educazione digitale.  In questo, vedo una forte connessione proprio con il Movimento: se infatti non ci accorgiamo che “abitare” il web significa avere bisogno di un’educazione civica, emozionale, sentimentale e digitale, a quel punto c’è un grosso problema. Anche perché Internet rende il nostro analfabetismo emotivo più palese. 

Quali sono le azioni concrete che avete già avviato in Odiare ti costa?  

Abbiamo cominciato a fare campagne di informazioni e a diffondere suggerimenti per chi si trova in situazioni tremendamente spiacevoli e lesive dei propri diritti personali, quali per esempio il fenomeno del revenge porn, cioè la diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti (qualificata come reato solo di recente, con la Legge n.69/2019). 

Sono cambiamenti importanti, anche se a livello sociale le persone fanno ancora troppa fatica a riconoscere la propria responsabilità, ad avere la capacità di “abitare” il web e di riconoscersi come correlati con gli altri.

Ecco perché abbiamo iniziato a dialogare con i grandi social network, come Facebook e Instagram, per diventare ufficialmente trusted flagger. Quindi, in sostanza, in Odiare ti costa possiamo segnalare a un canale diretto i casi più gravi di diffamazione, cyberbullismo, minacce, ecc. 

Sottolineo comunque che il ruolo che ci siamo assunti non è quello di punire, ma di educare coloro che non si accorgono di essere in balia delle loro peggiori pulsioni.

Negli ultimi anni stiamo vivendo un corto circuito per quanto riguarda la nostra responsabilità comunicativa. Al netto della violenza fisica, perché pensiamo di essere in una sorta di “bar digitale” e quindi immuni da conseguenze penali nell’offendere, insultare, denigrare gli altri?

Nel momento in cui “mettiamo al mondo” un’affermazione che offende qualcuno, dobbiamo avere una “grammatica emotiva” che ci permetta di essere consapevoli che stiamo effettivamente offendendo qualcuno e che non si può fare. 

Il problema che va compreso e affrontato collettivamente è che, quando pubblichiamo offese, intimidazioni o autentiche minacce, molti di noi hanno quasi la sensazione di trovarsi sotto al letto, nella propria camera. Invece stanno urlando dal balcone. Fuori. Pubblicamente.

Le fake news sono un termine convenzionale per definire le notizie false, che esistono da tempi antichissimi per controllare più efficacemente le masse. Che opinione hai a riguardo? 

Noi abitiamo la realtà in ragione delle storie che raccontiamo ed è così da millenni. Solo che molte di queste storie sono false! Le fake news sono strumenti comunicativi che ci hanno anche permesso di andare avanti e superare grandi ostacoli. Per esempio, credere nei paradisi può essere stato molto utile in una certa fase della storia dell’umanità.  

La censura, in questo contesto, come la inserisci? 

Come dice Yuval Noah Harari, una volta la censura operava mettendoci di fronte tre informazioni e ci nascondeva quella vera. Oggi invece no: la censura ai nostri giorni non ci nasconde la verità, ma satura i canali di informazione all’interno dei quali c’è la verità. Solo che è molto ben nascosta nella confusione delirante di news. 

Così facendo, si generano diffusi fenomeni di infodemia, che è la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rende difficile orientarsi su un determinato argomento, data la scarsità di fonti attendibili. 

Allora chi è che riesce a districarsi tra le fake news?

Coloro che hanno sviluppato una bussola interiore, nella quale rientrano per esempio le caratteristiche dello studio personale. Un punto per me essenziale è che dovremmo imparare a studiare le informazioni di cui ci nutriamo. In questo è fondamentale porre attenzione, per esempio, alla giusta postura quando studiamo, alla distanza tra noi e il libro, alla posizione del libro, ecc. Tutte accortezze che rientrano nel macroambito della cura di sé. 

A livello sociale, la nostra responsabilità oggi non è quella di eliminare tutte le fake news (evento improbabile). È invece quella di fornire ai cittadini gli strumenti per orientarsi all’interno del mondo dell’informazione, in maniera tale che non sia un organismo verticistico a decidere cosa divulgare e cosa no, ma che ci sia una consapevolezza diffusa. 

La rete ci permette di essere vicini secondo affinità intellettive, emotive, culturali, spirituali. Ed è quello che succede in Tlon (la casa editrice fondata da te e Maura Gancitano), che è anche agenzia di eventi, scuola di filosofia e centro aggregativo di comunità. Allora ti chiedo questo: quando comprendiamo gli strumenti utili per dare un qualche tipo di contributo virtuoso al mondo, perché poi rimaniamo intrappolati nella comodità della rete?

Ti rispondo partendo da ciò che osservo ultimamente. Su internet possiamo riconoscere due tipi di persone: gli influencer e gli animatori di comunità. Gli influencer sono un trend center, cioè attuano e soprattutto mostrano attività che generano una emulazione molto rapida da parte delle persone. 

Gli animatori di comunità sono invece coloro che creano comunità virtuali, che hanno ricadute nel mondo reale. Queste comunità sono fondate sui valori e, quindi, le persone al loro interno si riconoscono in base alle azioni che mettono in atto. E la filosofia è uno strumento potentissimo in questa direzione.

Con Tlon abbiamo certamente divulgato molti contenuti, ma sempre con lo scopo sociale di avvicinare tra loro persone con un sentire simile. Riusciamo a mettere insieme coloro che hanno un interesse affine verso la cultura, avendo alle spalle esperienze diverse. Da un lato ci sono persone con una cultura – per intenderci – “alta”, che di solito hanno un’intensa formazione alle spalle, frequentano la nostra accademia e  sentono però il bisogno di non essere slegati dal mondo. Dall’altro lato ci sono quelle persone che hanno un’istruzione più “bassa”, che hanno fame di conoscenza e che – mentre cucinano o fanno le pulizie – si ascoltano con Audible le lezioni di Simone Weil, Hanna Arendt e Simone de Beauvoir. Tutto questo è meraviglioso.

In una dimensione tecnocratica che venera il denaro come un fine e confonde l’economia con la finanza, cosa vuol dire essere un filosofo? Come fai tu, da filosofo e imprenditore, a nutrire un pensiero che è per forza scardinante e disobbediente? Come fai a indirizzarlo per connettere le persone e a non lasciarlo appassire ed essere fine a se stesso? 

Ritengo che a monte ci sia sempre la questione di “scegliersi i propri antenati”. Io me li scelgo con Nietzsche, Cioran, Pasolini, cioè con quelli che pensavano che se la filosofia non era un pericolo, non aveva senso farla. Per me la filosofia deve dare fastidio. Ma questo è il mio modo, che è diverso per esempio da quello di Maura. Lei nel fare filosofia è “arendtiana”, cioè tende a mettere le cose in ordine. Io invece faccio il contrario: creo disordine. Ecco anche il motivo per cui siamo complementari.

Su questo versante infatti mi domando ogni volta “Ho creato abbastanza problemi?”, oppure “Ho spronato gli altri e me stesso a farci nuove domande?”. Che è poi l’effetto torpedine di Socrate, che cerco di replicare.

Un’ultima domanda sul logos. Rifletto spesso sul senso della parola e di come sia diffusamente sottovalutato da molte persone. Usiamo le parole perché impariamo a parlare, a comunicare e a farci capire. Ma spesso non gestiamo le parole, non le viviamo, non le indossiamo. Qual è il tuo pensiero su questa banale tragedia?

Parola viene da “parabola”, che ha a che fare con la comparazione. Ogni volta che noi diciamo una parola, stiamo creando nel linguaggio un corrispettivo di ciò che c’è nel mondo. Il punto è che ogni parola è al tempo stesso una storia.

Della parola tu ti definisci “mosaicista” e il termine “mosaico” proviene da “musa”. Mi fai così venire in mente un passaggio della vita di Socrate che, mentre sta aspettando la sua condanna a morte, capisce che forse aveva male interpretato le parole della Musa, udite in sogno. 

La Musa infatti gli aveva detto di “fare musica”, che per Socrate è fare filosofia, cioè la più alta tra le arti. “E se fare musica volesse proprio dire suonare un componimento in ode a Dio?”, si chiede Socrate. Così lo fa! Cioè in punto di morte, con l’umiltà sorprendente di saper giocare con le parole, Socrate si permette di rivedere completamente la sua esistenza.

Ricordiamoci che la relazione con le parole che usiamo è una relazione con il simbolo, che ha una metà conosciuta e una metà sconosciuta. Noi non possiamo che pensare entro i limiti del nostro linguaggio, però il nostro pensiero non si manifesta solo attraverso l’utilizzo della ragione. La ragione è funzionale per raggiungere l’immaginazione. E grazie all’immaginazione possiamo suonare in “un’orchestra” piena di suoni, realizzando qualcosa che non è mai stato ascoltato prima d’ora.

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Enrico Chiari

Author Enrico Chiari

Storymaker | Formatore informale | Facilitatore. Finora solo due vite: nella prima, un percorso lineare. Nella seconda, la MIA strada. Sono un creatore di contenuti digitali, faccio formazione (informale e dinamica) in radici di personal branding, storytelling emozionale, armonia comunicativa online-offline. E facilito la comunicazione empatica nei gruppi.

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