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La nuova intervista è a Luca Piergiovanni: insegnante, consulente, formatore ed esperto di Tecnologie dell’apprendimento.

podcast Luca Piergiovanni
Nell’ultimo anno e mezzo anche il mondo scolastico è stato sconquassato dalla pandemia. C’è voluto del tempo per metabolizzare i cambiamenti adottati e per intuire quali sono gli strumenti e i metodi che bisogna continuare ad usare nell’educazione scolastica. Luca, com’è il mondo della scuola dopo la DAD?  

Parto da una premessa. La pandemia di Covid-19 ha sconvolto chiunque nel mondo scolastico, ma bisogna dire che nell’emergenza in cui ci siamo trovati ci sono docenti che hanno “reagito” meglio di altri. Sto parlando di quegli insegnanti che già prima della pandemia avevano acquisito delle competenze digitali e rafforzato un pensiero critico rispetto all’universo digitale. 

Queste capacità e questa attitudine hanno consentito loro di applicare con gli studenti un approccio flessibile, dinamico e veloce, quando gli strumenti digitali sono diventati l’unico mezzo per comunicare, realizzare docenze, stimolare ricerche e realizzare verifiche. Chi non ha fatto questo, ha tendenzialmente replicato quello che faceva in presenza, con risultati raramente efficaci.

Quando citi i casi più virtuosi, parli anche per esperienza personale?

(Ride) No, non voglio mica autocelebrarmi. Sto parlando di quei tanti docenti che già in passato avevano iniziato ad integrare la didattica digitale all’interno di quella più tradizionale. 

Personalmente, come insegnante, già negli anni scorsi avevo avuto la possibilità di realizzare coi ragazzi esperienze di apprendimento tramite il digitale, che hanno stimolato coinvolgimento e interazione. Ovviamente questo, nel periodo di emergenza, mi ha permesso di trasferire più facilmente la didattica digitale in quella più “tradizionale”.

Nello specifico, quali progetti avete realizzato?

Per farti qualche esempio, abbiamo incluso l’uso dei social network per studiare argomenti e temi legati all’attualità e abbiamo progettato e realizzato dei podcast (il tutto sempre con il consenso scritto dei genitori). Abbiamo anche instaurato dei gemellaggi elettronici con altri Paesi europei, in un’ottica di una comunità digitale che andasse oltre i confini geografici.

 


In queste modalità educative, quale aspetto ti ha dato maggior soddisfazione?

La cosa più bella e gratificante per un insegnante è vedere la passione viva dei ragazzi. Pensa che in questi progetti mi è capitato di avere classi talmente entusiaste riguardo ai lavori collettivi, da chiedere di tornare a scuola anche nel pomeriggio (sorride divertito).

Tengo a precisare che in questi percorsi ci sono sempre stati due aspetti cruciali. Il primo è stato la necessità di far sì che gli studenti diventassero editori di contenuti, utilizzando specifiche app, in modo tale che potessero sviluppare competenze pratiche. 

Il secondo aspetto riguardava la valutazione, che veniva basata su “rubriche condivise” coi ragazzi.  In alcuni casi questo ha portato anche alla costruzione di un’autovalutazione, cosa per nulla facile con studenti delle Scuole Medie Inferiori.

In base alle tue esperienze nell’Education Technology, cos’è che ti sorprende di più nell’apprendimento e nella creatività dei ragazzi? 

Sono meravigliosi e mi stupiscono sempre. Rimango sorpreso dal fatto che a volte si dimenticano che stiamo facendo lezione (a causa del coinvolgimento attivo), ma rimango ancor più colpito nel vedere che si dimenticano pure del voto. La partecipazione attiva, infatti, fa perdere loro la cognizione del tempo ma anche l’ansia della valutazione. E personalmente ritengo di grande importanza il fatto che si abituino a diventare persone creative, in grado di collaborare e di comprendere certi meccanismi in modo intuitivo. 

 Nel 2015 hai contribuito anche tu a creare il Piano Nazionale Scuola Digitale, documento pensato per guidare le scuole in un percorso di innovazione e digitalizzazione. Cosa ci racconti di questo?  

Penso sia stata un’esperienza davvero straordinaria, dato che fino a quel momento la discussione sulla didattica digitale era relegata a piccole cerchie di appassionati e pionieri. 

Quel Piano ha dato uno scossone (con rilevanti finanziamenti nazionali ed europei), grazie al quale abbiamo potuto mettere in campo idee davvero valide. Ma soprattutto credo che abbiamo iniziato un cammino verso la vera implementazione del digitale, la quale non richiede solo un determinato approccio ma anche la disponibilità di strutture adatte, la condivisione di risorse e il possesso di materiali.

Ma è andato tutto perfettamente o ci sono stati anche degli errori?

Penso che purtroppo sia mancato un po’ di coraggio nel dare rilevanza e vera libertà agli “animatori digitali”, figure che avrebbero dovuto avere tre compiti principali: organizzare la formazione adeguata per le singole scuole in cui erano presenti, raccordarsi con le agenzie educative del territorio ed essere portatori della cultura del digitale dentro il mondo scolastico. 

In molti casi sono stati “scambiati” per meri tecnici informatici, ma temo soprattutto che l’errore sia stato fatto a monte perché spesso si sono trovati a dover ricoprire questo ruolo assieme a quello di insegnante: una situazione insostenibile a lungo andare.

Se tu domani ti svegliassi e avessi la famosa bacchetta magica, nel mondo in cui lavori dove andresti ad attuare dei miglioramenti?

Non ho mai avuto bacchette magiche (sorride), quindi parto dai problemi che riscontro. 

Il primo riguarda la connettività. Ormai siamo arrivati a un livello in cui, potendo avere la connessione in ogni classe, potremmo fare cose fantastiche. Per fare un esempio tra i tanti, mi riferisco alle svariate possibilità di didattica che danno le LIM (lavagne interattive multimediali).

Il secondo problema è invece legato alla formazione dei docenti e alla mentalità che influenza gli approcci nell’insegnamento. Oggi c’è ancora molta resistenza nell’usare metodologie educative digitali con gli studenti, nel timore che questo le renda troppo ”meccaniche” e poco relazionali. 

Io penso che il segreto stia nell’adottare il più possibile un approccio equilibrato, che non si vincola acriticamente alle docenze “vecchio stile” ma che non si concentra nemmeno solo sul piano laboratoriale e prettamente ludico.

Ultima domanda sul mondo dei podcast. Tu che lo hai adottato da anni come metodo didattico, ci dici perché è così efficace come canale di comunicazione?

Personalmente amo i podcast e credo che influisca il fatto di aver lavorato come speaker in qualche radio locale, parecchi anni fa.

Riguardo alla tua domanda, ti confermo che coi ragazzi abbiamo realizzato dei podcast relativi alla poesia, alla storia e anche alla geografia. Sono convinto che possa essere uno strumento molto importante a livello didattico perché permette di creare contenuti su una materia di studio, dove sono gli studenti ad essere protagonisti. Nel processo di ideazione e creazione, infatti, possono davvero sviluppare una gran varietà di competenze. 

A livello sociale penso che il successo dei podcast sia legato all’apprendimento e all’intrattenimento in mobilità, che lo distingue dalla radio. I podcast sono ascoltabili dove e quando vogliamo, anche offline. E quando una puntata ci piace o la vogliamo approfondire, la possiamo riascoltare con grande facilità.

In ultima battuta, il mio parere è che in una società sempre più video-centrica abbiamo la necessità di recuperare la dimensione dell’ascolto. 

 

Enrico Chiari

Author Enrico Chiari

Storymaker | Formatore informale | Facilitatore. Finora solo due vite: nella prima, un percorso lineare. Nella seconda, la MIA strada. Sono un creatore di contenuti digitali, faccio formazione (informale e dinamica) in radici di personal branding, storytelling emozionale, armonia comunicativa online-offline. E facilito la comunicazione empatica nei gruppi.

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