Giuseppe Sferrazzo, docente nel settore della comunicazione e del marketing strategico, è stato il primo formatore volontario in Sicilia per Social Warning.
Giuseppe, ci racconti come hai incrociato la strada del Movimento Etico Digitale?
È il potere dei social. Sono un assiduo frequentatore di Linkedin da un po’ e, nell’autunno del 2017, ho iniziato a leggere con frequenza i post di Davide Dal Maso. Siccome continuavano a ispirarmi, l’ho contattato e in poco tempo abbiamo intavolato una progettazione per avviare un format qui in Sicilia.
Con lui ho subito chiarito che la mia esigenza era quella di non correre da solo. Siccome collaboro con altri professionisti e non mi piace la figura del “cavaliere solitario”, ho voluto allargare i contatti e coinvolgere altre persone che stimo.
Quindi sei riuscito a formare una squadra?
Sì, abbiamo creato un team di persone con background diversi e competenze multiple. Parlo di Fabio Buda (esperto e consulente informatico), Fabiola Ferrante (designer), Elisa Castro (psicoterapeuta) Gianluca Rescica (musicista) e Sebi Coppola (giovanissimo fotografo e videomaker).
Poi, assieme a Davide e Gregorio, abbiamo iniziato a fare le prime telefonate e i primi incontri nella zona ionica, tra Siracusa e Catania. Il 2018 è stato l’anno in cui abbiamo effettivamente realizzato gli interventi nelle scuole, con una frequenza media di una volta al mese.
Che rapporti avete avuto con i dirigenti delle scuole? Siete riusciti a far comprendere l’essenza educativa del progetto?
Abbiamo contattato diverse scuole, con riscontri in buona parte positivi che hanno portato a collaborazioni di valore. In un anno abbiamo fatto interventi in una decina di scuole.
Ci sono state anche rispondenze negative?
Sì, alcune scuole non sono riuscite a trovare il tempo per un’esperienza educativa come la nostra. Forse perché sono impegnate a seguire programmi ministeriali, quindi magari apprezzano l’idea ma non lasciano la porta aperta per progetti come questo.
Tra l’altro, in quest’anno scolastico il trend sembra essere lo stesso e diverse scuole non riescono (o non vogliono) inserire questo tipo di attività nei loro programmi. Purtroppo, aggiungo io.
Hai una tua opinione sui motivi che causano questa difficoltà di interazione?
La mia idea personale – di cui mi assumo la responsabilità – è che in Italia molti insegnanti e dirigenti non abbiano ancora consapevolezza delle criticità di utilizzo digitale da parte dei giovani. Non dico tutti, perché sarebbe una catastrofe. Ma molti sì.
Vedo inoltre un altro problema diffuso: non abbiamo ancora capito le opportunità professionali che già esistono e che si stanno creando per i giovani. Quindi molti metodi di insegnamento rischiano di essere obsoleti per quanto riguarda “l’aderenza con la realtà”, che è poi la stessa realtà che i giovani vivono fuori dalla scuola.
Che cosa consiglieresti a un adulto interessato dall’idea di entrare a far parte del Movimento Etico Digitale?
Parto dalla mia esperienza come genitore, che tra l’altro riscuote sempre interesse quando la racconto agli incontri. A un adulto che vuole entrare a far parte del gruppo dei formatori, consiglierei di mettersi in gioco evitando di guardare i lati negativi del digitale.
E poi consiglierei di studiare, informarsi, essere affamato di informazioni nuove. Io dedico sempre un po’ di tempo a leggere (libri ed e-book) sulla cultura digitale e non solo: studiare è diventata una mia esigenza prioritaria e costante.
In questo ci vuole sempre una buona dose di ammissione di ignoranza, giusto?
Quella è indispensabile. E non solo per quanto riguarda il digitale. Io spesso chiedo a Sebi – mio collaboratore – qualche informazione o consiglio sull’utilizzo di dispositivi hardware, semplicemente perché non so e voglio sapere. Considera che Sebi, come età, potrebbe essere mio figlio. Ma in quel momento, lui è il maestro e io sono l’allievo.
Dovremmo essere aperti a imparare da chi sa più di noi, a prescindere dall’età. Il mondo del digitale è un’opportunità enorme, che ci mette in connessione con conoscenze che, fino a qualche anno fa, ci saremmo solo sognati.
E a un genitore, in generale, cosa ti senti di dire?
Parto dal presupposto che, finora, abbiamo incontrato molte difficoltà a coinvolgere i genitori nelle iniziative qui in Sicilia. La mia sensazione è che molti, soprattutto nel Sud Italia, snobbino questi temi perché non conoscono i rischi concreti del mondo digitale in cui sono immersi i figli. Umilmente mi sento di consigliare di intraprendere una formazione nell’utilizzo consapevole dei social, per imparare a condividere informazioni e divulgare contenuti. Non per giocare o per essere presenti per bisogni egoici.
In questo progetto specifico, che cosa ti spinge ad andare ad ascoltare questi ragazzi, che sono tecnologicamente potenti ed emotivamente fragili?
I ragazzi che vedo sono proprio come li descrivi tu. Abbiamo incontrato giovani sui 14/15 anni (o anche meno) che sono capaci di maneggiare sorprendentemente dispositivi tecnologici. Solo che non sanno per cosa utilizzarli. Cioè conoscono come usare i mezzi, ma sono lasciati soli nel comprendere il fine e l’evoluzione di quegli strumenti.
I ragazzi sono troppo poco consapevoli del potere che hanno in mano e della velocità con cui utilizzano questo potere. Non possiamo rivolgerci a un tredicenne pensando di migliorare esponenzialmente le sue competenze tecniche. Dovremmo supportarlo nel comprendere cosa significhi – per esempio – creare contenuti in un modo coinvolgente ma non violento, o in un modo originale che generi dialogo.
I tredicenni che incontro scrivono messaggi come se dall’altra parte non ci fosse nessuno. E questo, va detto, è un fatto socialmente pericoloso.
Cosa ne pensi della cultura digitale in Italia, da un punto di vista sociale? Che tendenze e che sviluppi vedi?
Trasversalmente la cultura digitale nelle aziende sta cominciando a diffondersi. Per esperienza personale, dico che ci sono ancora tantissime microimprese che sono completamente fuori dal giro, che vorrebbero entrarci, ma che non hanno al loro interno un management che elabori una strategia digitale. Quindi, se poi si decide di fare, spesso è un’azione di improvvisazione.
A livello ancora più ampio, i dati ci dicono per esempio che in Italia ad una mail si risponde dopo oltre due giorni lavorativi. Nei paesi anglosassoni, siamo a livelli di ore.
L’Italia ha un problema culturale enorme se, per esempio, c’è ancora difficoltà a capire che utilizzare la PEC è nettamente meglio che utilizzare la raccomandata. Sinceramente, comunque, io ho la sensazione che ci sia ancora troppa diffidenza verso il mondo digitale: questo è un freno che ci imponiamo noi stessi.
Mi fai venire in mente che questa rivoluzione tecnologica da alcuni è compresa, mentre altri stanno iniziando a comprenderla solo ora.
Qualcuno, però, non ha ancora capito cosa significhi e lo si nota da come comunica sia offline che online. Vedi lo stesso nel tuo quotidiano?
In Sicilia noto che esistono aziende ferme al marketing di prodotto degli anni ’70. Lì il prodotto si vendeva da solo. Oggi anche solo pensarlo è assurdo, dato che siamo nel marketing delle esperienze, del sensoriale, dell’immediato, dell’emulazione personalizzata.
Un altro grande problema, poi, riguarda la mancanza di cultura d’impresa. Rifletto sul fatto che le aziende non possono vivere solo di finanziamenti, ma devono puntare sulla valorizzazione del capitale umano. Ma questo è un problema generale, non solo del Sud Italia.
Tornando a parlare del Movimento, che cosa ti ha dato finora questo “ecosistema umano”?
Lo sento un insieme di persone che hanno voglia di imparare e di formarsi: questo mi motiva molto a collaborare.
Ad essere sincero, credo che la competenza e la preparazione di Davide e Gregorio sui temi che trattano sia molto elevata (più di quella di altri professionisti che ho conosciuto nel tempo).
Sento anche però il limite della distanza geografica, che va limata con contatti digitali da mantenere e con progetti da alimentare. Per fortuna, l’intenzione va in questa direzione connettiva.