Sin da piccoli alleniamo la nostra capacità di riconoscere il bene il male in base a modelli fin troppo facilmente distinguibili, impossibili da confondere o da sovrapporre: nelle fiabe che ci vengono lette da bambini il buono è sempre buono, il cattivo è sempre cattivo.
Siamo così affezionati a questo modello dicotomico, che non lascia spazio a scomodi dubbi, da applicarlo ancora in età adulta alla vita reale. In tal modo, tendiamo a immaginare figure stereotipate che corrispondono alla nostra idea di “male”: criminali, ladri, bulli.
Anche i cyberbulli hanno una loro rappresentazione comune nelle nostre menti: li pensiamo curvi sul loro pc, gonfi di rancore e pronti a scaricare la loro cattiveria su ogni anima viva che incrocino. Li crediamo emarginati, privi di una vita sociale soddisfacente, con il solo scopo di sfogare la loro frustrazione nel mondo virtuale.
La realtà, però, ci insegna che questa rappresentazione stereotipata del cyberbullismo è molto limitativa. Questo fenomeno, infatti, non riguarda solo troll e “insultatori seriali” che passano le loro giornate a schernire le persone sul web solo per il gusto di farlo. Tutt’altro.
La verità è che tutti noi possiamo essere cyberbulli.
Lo diventiamo nel momento esatto in cui ci dimentichiamo che dall’altra parte dello schermo ci sono esseri umani come noi; a volte con credenze diverse, fedi diverse, opinioni diverse, ma pur sempre esseri umani.
Lo diventiamo quando pensiamo di poter giudicare con aspra sicurezza situazioni e persone di cui non conosciamo fino in fondo la storia.
Lo diventiamo quando rinunciamo al dialogo e ci abbandoniamo alla rabbia, all’insulto, alle minacce.
Si può essere cyberbulli anche nel difendere giuste cause, come il diritto dei diversamente abili ad avere dei parcheggi riservati. Recente è il caso del vigile urbano morto suicida dopo aver erroneamente parcheggiato in un posto per disabili ed essere stato esposto alla gogna social. È bastata una semplice condivisione di una foto, che ritraeva l’auto di servizio del vigile in sosta vietata, su un gruppo Facebook. È bastato questo a determinare il fiume d’odio che ha portato Gian Marco, tutore dell’ordine poco più che quarantenne, al suicidio.
Quella foto è stata condivisa per una giusta causa? Sicuramente sì.
Chi l’ha condivisa l’avrebbe fatto comunque se avesse conosciuto in anticipo le conseguenze del suo gesto? Probabilmente no.
L’11 febbraio si celebra il Safer Internet Day, giornata internazionale dedicata alla sicurezza su internet. Per rendere il web un posto migliore, proviamo a cominciare da noi. Riflettiamo sull’effetto che ogni nostra condivisione, ogni nostro post, ogni nostro commento, può avere sugli altri. Fermiamoci un momento in più a pensare alle conseguenze, anche involontarie, che i nostri gesti e le nostre parole possono avere per chi sta intorno a noi. Dentro e fuori da internet.
—
Grazie ad Alessandra Ferrara per la collaborazione nella stesura dell’articolo.