Jose Ortega y Gasset ha detto “Dimmi a cosa presti attenzione e ti dirò chi sei.” Credo non ci sia niente di così vero, e così potente. Specie nei giorni del rumore, del continuo parlare, chattare, pingare. Al tempo dei social insomma.
Qualche numero per intenderci: in media utilizziamo lo smartphone oltre 177 minuti al giorno, un centinaio di volte lo facciamo per navigare su internet…oppure (che cosa è Internet?) per rispondere a un messaggio o l’ennesima notifica di questo e quel social.
Uso il plurale e mi ci metto anche io perché è la somma che fa il totale. Insieme creiamo milioni di blog post, ci scambiamo oltre 4 milioni di mi piace solo su facebook, ci inviamo oltre 29 milioni di messaggi WhatsApp. In un solo minuto, si intende!
Per coloro che si occupano di marketing la situazione è conosciuta come content shock: ci sono più persone che parlano di quante ascoltano, l’attenzione è diventata merce rara.
Ma c’è anche un significato diverso, forse anche più importante.
Quando siamo noi a dover distribuire attenzione come ci comportiamo? Chi merita la nostra attenzione? Chi la meriterebbe? E dove sta andando invece?
È una domanda non da poco perché siamo ciò che vediamo, e leggiamo. Siamo la somma di ciò che vediamo in giro: possiamo essere ottimisti o pessimisti semplicemente per questo motivo. Possiamo fidarci o non fidarci per lo stesso motivo. Scegliere una scuola, una facoltà, un percorso lavorativo semplicemente in base alla frequenza dei post nella nostra bacheca.
Niente di nuovo. Quasi.
Anche un tempo il detto “sei la media delle cinque persone che frequenti” era di moda. O nella versione negativa “dimmi con chi pratichi e ti dirò chi sei”. Era vero già venti o trenta anni fa, probabilmente lo è sempre stato.
Ma oggi è ancora più vero, più impattante.
Condizionati
Nel 2012 Facebook testò (arbitrariamente) la possibilità di condizionare gli utenti semplicemente modificando la visibilità di determinati post. Nel corso di meno di una settimana vennero coinvolte circa 689.000 persone alle quali vennero nascoste alcune parole precise, legate ad altrettanti stati emotivi.
Il risultato dimostrò che si, era possibile condizionare le persone.
Gli esperti rilevarono infatti che le emozioni delle persone erano state rafforzate da ciò che avevano visto: chi era stato sottoposto ad emozioni negative iniziava a comunicare in questa direzione, e viceversa.
Da allora si parla di contagio emotivo, mentre subito dopo l’episodio si iniziò a parlare di una nuova era di marketing, lo skinner marketing.
Già nel 2013 Alexis C. Madrigal lo spiegò bene da una colonna di TheAtlantic, era l’indomani anche della nuova versione di Google Maps che apriva altri preoccupanti scenari.
Ad ogni modo, nelle parole di Alexis: siamo come ratti e i like sono il premio. Le applicazioni future che fanno uso di big data, posizione, mappe, monitoraggio degli interessi e flussi di dati provenienti da dispositivi mobili e indossabili, promettono di inaugurare l’era del potere senza precedenti nelle mani dei marketer. E non si tratta più di conoscere semplicemente i nostri desideri innati, ma di programmarne di nuovi.
Il condizionamento volontario
Ci sarebbe materiale per farne un libro ma non ho alcuna intenzione di alimentare la cultura del sospetto o il catastrofismo. Qualcosa di interessante è invece ragionare su un condizionamento diverso, volontario. Tornando alla frase iniziale di Ortega, quello al quale ci sottoponiamo volontariamente.
Se adesso che leggi fai mente locale o apri uno dei tuoi social preferiti te ne rendi conto: è difficile trovare opinioni discordanti dalle tue. Solitamente si seguono persone affini, trend e argomenti che sentiamo nostri, si arriva dunque in una forma di isolamento volontario nel quale siamo tutti uguali, o quasi.
Non è un caso che uno dei termini più gettonati, a distanza di anni da quando ne parlò Seth Godin nel 2009, sia tribù.
Bolle e tribù
Siamo come ratti, condizionabili e condizionati. Ma siamo anche come animali che vanno a creare e trovarsi un branco. Se ne stanno tra loro rafforzando tanto un senso di appartenenza tanto quello di distanza e diffidenza verso chi non ne fa parte.
Il risultato è simile ad una bolla. Ognuno ha la sua, ognuno nella sua.
Una cosa che ad esempio mi fa sempre riflettere è che la maggior parte delle persone che leggo e cito, pensiamo ad esempio a Simon Sinek per dirne uno, è un perfetto sconosciuto per tutti i miei amici di infanzia, che incontro ancora oggi ogni fine settimana.
Ci resta giusto il pallone ad unirci, e qualche vecchio ricordo di scuola.
Anche questo è un fenomeno con il quale dobbiamo fare i conti: il passaggio dalla prossimità all’affinità.
Non siamo più la media delle persone che ci sono vicine ma di quelle che ci sono affini.
Con una grande conseguenza: dobbiamo fare attenzione a chi facciamo attenzione perché diventiamo ciò al quale facciamo attenzione.
L’Internet è cattivo e pericoloso? Bisogna chiuderlo?
Mi viene in mente una storiella che spesso gira nel web.
C’è un tizio che cambia paese non sentendosi a suo agio. Arriva in quello vicino e incontrando un uomo seduto su una panchina, gli chiede “Come si vive in questo paese? Da dove vengo erano tutti stolti e prepotenti”.
L’uomo allora risponde: “Mi spiace, anche qui sono tutti così.”
Ne arriva un altro e la scena si ripete, tranne che per un particolare.
“Come si vive qui? Da dove vengo erano tutti buoni e gentili”
“Sei nel posto giusto, anche qui sono tutti così”.
Non so se la storia era raccontata esattamente in questo modo ma la morale è semplice e si applica anche a questo mondo digitale.
Ciò che cerchi trovi, ciò che sei vedi.
Siamo oggi in un paese fatto di pixel che non vediamo neanche. Più veloce e con la possibilità di incontrare e frequentare più persone che mai nel corso della storia.
Ma ognuno troverà ciò che cerca. Vedrà ciò che vuole.
Ci sono comunità che si aiutano, che sostengono, che cercano di cambiare il mondo e ci riescono anche, a piccoli passi.
Altri che si divertono a fare del male, farsi del male. Sono come i Joker che non vogliono niente se non vedere bruciare il mondo.
La scelta è nostra. A chi dare attenzione, a cosa fare attenzione. Cosa diventare.
Espandere consapevolezza all’uso positivo del web è una delle sfide di questo decennio. Non basta parlare di rischi, non serve dire che il web è cattivo.
Bisogna portare delle alternative di utilizzo e parlare loro anche di potenzialità del web attraverso interventi svolti da persone appassionate ai social.
È una questione di attenzione: portiamo il focus solo sul negativo o aiutiamo questa Italia in pixel a sfruttare questa evoluzione digitale?