Scrivo questo articolo seduto davanti al PC fisso, che sta appoggiato sulla mia scrivania. Tiro un po’ gli occhi per riuscire a vedere lo schermo, porto gli occhiali per un motivo dopotutto, principalmente a causa dell’ostacolo che si frappone tra me e il piano: mia figlia, di poco più di un mese, che porto spesso in fascia, quando sono a casa.
Una parte consistente del mio lavoro, tutta quella che ha a che fare con il back office della mia attività da consulente, la svolgo seduto a questa sedia. Sono un millennial, nato nel 1987, e che ha imparato a scrivere sul computer (scrivevo i comandi di testo sul vecchio sistema DOS, in inglese), prima che a mano; a tutti gli effetti un nativo digitale.
Lo racconto perché la tecnologia ha sempre fatto parte della mia vita, e se possibile questo è ancora più vero per mia figlia.
Insomma, lo si vede di continuo. Ad esempio, lasciare il cellulare in mano ai propri figli, anche piccolissimi, è lo stratagemma che molti genitori trovano per avere quei dieci minuti in più di tranquillità mentre sono a cena fuori, o in coda al supermercato. Senza supervisione, tanto alla fine cosa vuoi che facciano? Guardano qualche video su YouTube, magari fanno un paio di partite a Candy Crush.
Così sta buono, giusto? E poi guardala! Che buffa la mia bambina quando fa le facce, oppure quando chiacchiera con la spina della stufetta del bagno, mentre la cambio sul fasciatoio. E che teneri che siamo tutti insieme in questa foto, tutti momenti che vale la pena condividere su Facebook.
Memorie di un passato non troppo remoto
Ma diciamoci la verità, noi Millennials non siamo nati con la tecnologia. Quando andavo alle scuole elementari, l’ideale di pomeriggio era passarlo con gli amici a giocare a pallone. La Play Station arrivò dopo, e comunque non tutti l’avevano. Solo l’amico (quello figo), e andare da lui a giocarci era l’eccezione. Quando ero piccolo io Internet prima non c’era; poi, quando c’era, la connessione era quella lentissima che ci metteva 5 minuti buoni a caricare una singola pagina, e comunque quando qualcuno telefonava a casa saltava la linea, e dovevi ricominciare daccapo.
Te lo ricordi il telefono fisso? E i pomeriggi passati a giocare con il cavo, mentre chiacchieravi con gli amici, mentre tua mamma ti urlava che ti avrebbe mandato a lavorare per pagare la bolletta? Io oggi il mio numero fisso di casa non lo so nemmeno, e quando mi chiama qualcuno so per certo che è un operatore telefonico che vorrebbe vendermi un nuovo contratto.
Ma il tema di questo articolo non è la reminiscenza, e nemmeno la nostalgia per i bei vecchi tempi. In realtà è solo per mettere in evidenza l’ovvio: se è vero che la maggior parte delle tecnologie che esistono oggi esisteva già, quando io sono nato, il loro grado di pervasività è assolutamente cambiato. Per me, e chi appartiene alla mia generazione, erano un oggetto mistico, carico di meraviglia, e che dovevamo conoscere e scoprire (perché nessun altro lo conosceva). Oggi è la normalità.
E non c’è nulla di male, in questo. Il mondo cambia, e noi cambiamo con esso. Il fatto che una tecnologia sia così pervasiva, ad esempio, non ci esime dal porci un problema molto semplice: la stiamo usando in modo responsabile?
Una parola bellissima: Responsabilità
Amo molto la parola Responsabilità, perché ha un significato squisitamente ambivalente: la persona responsabile di un problema, ad esempio, è sia quella che l’ha causato, sia quella che ha il potere di porvi rimedio.
Usare in modo responsabile la tecnologia significa, quindi, essere titolari sia dei vantaggi, che dei danni creati con essa.
Poniamo quindi i due esempi precedenti, esempi che appartengono sicuramente al vissuto della stragrande maggioranza dei genitori (degli altri, naturalmente).
Il rapporto tra minori e tecnologia
Cosa succede quando diamo un telefono in mano ad un bambino senza supervisione? Beh, se il bimbo in questione ha meno di due anni, il suo cervello ancora non è perfettamente formato, e l’eccesso di stimoli portato dallo smartphone potrebbe influenzarne negativamente lo sviluppo cognitivo, e la capacità di attenzione.
Se il bimbo è un po’ più grande, il danno è meno grave, di certo, anche se molti studi psicologici mostrano come l’abitudine all’eccesso di stimoli data dalla tecnologia porti a una ridotta soglia dell’attenzione, e a una maggiore incapacità di gestire emozioni negative, quali noia e frustrazione, oltre a un irrigidimento delle capacità creative. Nulla di irreversibile, per carità, ma l’effetto è quello.
Oppure parliamo delle foto dei minori su Facebook. Un genitore è il tutore legale del proprio figlio, e quindi ha tutti i diritti ad usarne l’immagine come meglio ritiene opportuno. Insomma, senza grossi problemi chi pubblica le foto dei suoi figli ne vende la privacy in cambio di un pugno di Likes. Senza dimenticarci di quanto sia facile che queste cadano sotto gli occhi di qualche pedofilo o malintenzionato, che una volta che sa che faccia ha e come si chiama tua figlia non avrà problemi ad appostarsi fuori scuola, raccontando di essere un suo parente, a cui i genitori abbiano chiesto di riaccompagnare il figlio a casa.
E nella sua innocenza da bambino, lui acconsentirà, perché che motivo avrebbe di dubitare di uno che sa così tante cose di lui?
Non dico che questo debba succedere sicuramente, ma se capitasse, a chi potrebbero dare la colpa i genitori, se non al loro desiderio di rendere pubblica la vita del figlio prima che questi sappia anche solo cosa vuol dire?
Che poi, ovvio, non capita, quindi il genitore in questione sta solo educando il proprio figlio a svendere la sua privacy in cambio di qualche like. Nessun danno, giusto?
Un mondo più responsabile, per noi e per loro
Mia figlia è ancora tra le mie braccia, e ora sta dormendo. Il fatto che abbiamo una figlia è un fatto pubblico, ma solo gli amici e i conoscenti diretti sanno come si chiami, e che faccia abbia. Forse sono un paranoico, o forse lo sono perché ho un’idea abbastanza chiara di quanto valga la privacy mia e di mia figlia. Una cosa, però, la so: ci tengo davvero a costruire un mondo in cui lei possa dare il massimo di se stessa, sempre consapevole del fatto che le sue azioni hanno delle conseguenze.
Insomma, mi piacerebbe davvero insegnargliela, questa Responsabilità.